Intendiamo la pedagogia come accompagnamento di un autonomo percorso di scoperta.
Il laboratorio è per noi il tempo della conoscenza reciproca, del nutrimento, il tempo dell’onestà, della fragilità; il luogo della cura, dell’allenamento che mira a costruire una presenza che si fonda su una forma di agilità dell’ascolto, sulla ricezione e sulla reazione; un’occasione per riconoscerci e dare luogo a un progetto comune, e magari scoprire di poter condividere nel futuro un tempo più lungo.
Il lavoro di TeatrInGestAzione si scrive direttamente in scena e prende forma di dialogo intersoggettivo tra la coppia Gesualdi-Trono. In spirito e corpo, o come direbbe Nancy:
“due corpi, uno di gloria e l’altro di carne, si distinguono in questa partenza e si appartengono l’un l’altro”.
Alla base delle loro creazioni c’è il principio della bellezza come atto politico, diretto a squarciare il quotidiano, fratturare l’idea, dare luogo ad una vertigine poetica, muovendosi sulla verticale abisso / volo.
Gesualdi-Trono perseguono un’estetica che posa sorprenderli nel suo sorgere, essenziale. Hanno iniziato il loro lavoro con una fede che resta tutt’ora viva: ogni atto poetico è un atto politico.
Nel nostro dialogo quotidiano lavoriamo per superare il “ruolo” a favore di una “posizione”, determinata dal sapere tecnico che si possiede e dall’ampiezza del proprio raggio di visione. Una posizione mobile nello spazio d’azione, interscambiabile, al servizio della visione.
Non costruiamo un’opera per dire la nostra opinione, ma per apprendere, semmai per meravigliarci, per domandarci ancora, per ampliare il margine di domanda, come un viaggiatore che si costruisce il paesaggio che di lì a poco attraverserà. Ci interessa l’origine delle cose, l’essenza. Come se l’obbiettivo fosse prima di noi. Quel che non sappiamo è tutta la meraviglia che cerchiamo, la stessa che si può provare di fronte ad un paesaggio inatteso, dove la bellezza è dappertutto, permea come esperienza e restituisce all’osservatore una domanda.
Il punto di vista del creatore coincide con quello dell’osservatore di fronte allo stesso paesaggio. La prima regola per noi è dunque costruire un paesaggio intonato. Pensare il teatro come un approdo in un luogo sconosciuto in cui tutto è da fondare.
Si tratta non già di raccontare una storia, ma di plasmare una domanda, che dice la nostra condizione di fronte al mistero dell’esistenza. Si giunge alla domanda quando si è esaurita ogni possibile realtà, consumata ogni possibilità di rappresentazione. Allora accade di essere. Dare corpo. Farsi immagine.
Si tratta di scongiurare ogni possibilità di identificazione, che rassicura e consola. Il teatro è arte senza cittadinanza. Gli attori prendono posizione in un paesaggio appena il tempo per definirne l’imminente fine.
Molti dei nostri lavori mantengono una struttura tematica aperta in cui gli attori si richiamano e si rispondono, abitando l’immagine che fabbricano. È il corpo stesso che si fa discorso, visione.
Il corpo in scena è sempre portatore di una domanda sulla presenza, sul senso primo del suo essere lì in quel luogo. E’ questa domanda che prepara l’attore ad un atto totale, fino a trascendere in corpo-paesaggio dove lo spettatore approda.
Quando guidiamo un lavoro ci prendiamo cura di rendere esposti i processi sia a chi li compie sia a chi osserva, in modo da individuare il punto vivo, il numero primo.
Esposto è il processo, quanto esposto al processo è lo spettatore. Per questo nelle diverse fasi di sviluppo del percorso creativo di un’opera la costruzione e la restituzione sono sempre esposte, mai celate, mai camuffate, mai sottratte alla vista. Questa doppia esposizione, del corpo alla testimonianza e del visibile (inteso come inequivocabile e reale) al corpo stesso, traccia i due punti della linea lungo la quale si muove la nostra percezione dello stare al mondo. Il processo tende alla costruzione di un luogo abitabile, definito dall’esporsi di presenze autentiche e destinato a compiersi nella visione del testimone.
In un lavoro che ha l’ambizione, alta, di fare appello ad una presenza attiva e sollecitare chi lo incontra a farsene “testimone”, si rivela fondamentale l’essere portatori di una inappagabile tensione verso l’essenza, verso il disvelamento e la conseguente inclinazione a sottoporre ciascuna componente del proprio fare ad una radicale, rigorosa e costante, messa in questione.
Dalla nostra prassi nasce dunque la convinzione che i processi di creazione debbano avvenire in luoghi non teatrali, dove si parla un linguaggio altro, dove tutto intorno è paesaggio da esplorare, lingue nuove da apprendere, umanità da accogliere.