Atlante degli immaginari

Atlante degli Immaginari

Un progetto a cura della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.

Atlante degli Immaginari è un progetto di innovazione culturale tra i territori italiani, in ascolto dei fermenti creativi più innovativi, per promuovere percorsi di co-progettazione che diano origine a un cartellone di proposte artistiche originali. Un viaggio che nasce dall’incontro tra le sensibilità dei territori e le fonti d’archivio custodite da Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, rappresentative di esperienze di protagonismo sociale.
INFO: fondazionefeltrinelli.it/eventi/atlante-degli-immaginari/

Le Fasi

24-25 ottobre 2020 Milano – Residenza di archivio
Due giornate di ricerca intensiva in cui è stato possibile conoscere le sezioni del patrimonio archivistico e librario della Fondazione che più di altre testimoniano pratiche di protagonismo sociale, politico e culturale di individui, gruppi, movimenti in grado generare processi innovativi.

28, 30 e 31 gennaio 2021 – Workshop di radicamento nei territori
Ogni comunità artistica organizza una giornata laboratoriale di “radicamento” e di “attraversamento” nei territori, tra passeggiate e installazioni in alcuni quartieri particolarmente significativi, per mettere a sistema le fonti storiche raccolte durante la residenza di archivio e far evolvere i temi di ricerca.


24-25 ottobre 2020 – Milano

Residenza di archivio

Due giornate di ricerca intensiva in cui è stato possibile conoscere le sezioni del patrimonio archivistico e librario della Fondazione che più di altre testimoniano pratiche di protagonismo sociale, politico e culturale di individui, gruppi, movimenti in grado generare processi innovativi.


31 gennaio 2021 – Napoli

La Città Educante: Chi ha paura dei Bambini?

Domenica 31 Gennaio 2021, ore 16:00
Presso Basilica di San Severo Fuori le Mura

Interverranno:

Giovanni Laino (Fondatore di AQS – Associazione Quartieri Spagnoli)
Alessandro Pezzella (Edutatore – AQS – Associazione Quartieri Spagnoli)
Accompagnati da Giovanni

Valeria Anatrella (Cooperativa il Grillo Parlante)
Gaetano (Educatore di prossimità – Centro Altra Casa)
accompagnati da Marika, Luca, Anna

Nicola Laieta (Maestri di Strada – Associazione Trerrote)
Giuseppe di Somma (Maestri di Strada – Associazione Trerrote)

Roberto (Cyop&Kaf – Napoli Monitor)


Ascolta la diretta radio

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I nostri bambini partecipano alle lotte dei grandi così come partecipano di fatto alle condizioni dipendenti dalla loro emarginazione. Se possibile, vi partecipano e vi parteciperanno, speriamo, con maggiore coscienza e chiarezza della generazione che li precede.

La mensa dei bambini proletari – Ombre Rosse – Nuova Serie – n 6 – 1974

Dopo che le parole si erano esibite in mille numeri, come nello spettacolo di un prestigiatore, accadeva che un bambino capisse il trucco. Si leggeva allora nei suoi occhi una quiete da pre-terremoto, poi ogni lettera cominciava a tremare e sussultando e vibrando si affiancava alle altre finché la parola era là, intera, con il corpo della cosa che indicava.

L’isola dei Bambini – F. Ramondino – ARN Associazione Risveglio Napoli

La scuola che domina ancora oggi nell’immaginario collettivo, nonostante le sperimentazioni attuali e quelle che hanno attraversato tutto il secolo scorso, è una scuola che contiene, controlla, si difende. La scuola non si desidera. Eppure essa è il luogo dove i bambini e gli adolescenti fanno la prima esperienza di emancipazione dalla famiglia; dove da figli iniziano il percorso che li porterà a diventare “futuri cittadini”. Una prospettiva questa che spesso sembra sfuggire a chi ha il compito di definire e disporre l’impianto dell’istruzione pubblica, ancora basata su un sistema di diseguaglianze e privilegi, sulla quantità delle nozioni apprese, sulla premialità e sul successo personale; invece che sulla scoperta delle competenze e sul desiderio. Bisogna spesso affidarsi all’iniziativa dei singoli insegnanti o di alcuni illuminati amministratori, o di associazioni e organizzazioni territoriali, per ritrovare quell’idea di paideia, che sottende alla formazione del fanciullo come cittadino, che mette insieme etica e spirito.
I bambini, come i folli, fanno paura; perché non sono addomesticati alla convenzione, a quel linguaggio d’ufficio da sempre inadeguato a descriverli o a parlargli. La scuola, così come è generalmente gestita, figura come istituzione totale a carattere repressivo, incapace di prendere posto nelle dimensioni smisurate e fantastiche abitate dai bambini e dagli adolescenti. Così l’educazione si imposta per lo più rispondendo al continuo stato di emergenza, quasi mai ad un pensiero prospettico.
Eppure una scuola diversa è stata possibile e lo è ancora. Sono tante le sperimentazioni e le esperienze che hanno tracciato la strada per sviluppare un’idea alternativa di scuola, capace di coinvolgere la comunità tutta, di trasformare i propri edifici in architetture umane e dinamiche, in dialogo con il presente mentre si semina per il futuro.

Una scuola che scioglie i propri confini in una intera “città educante”.
Napoli in particolare è stata campo di sperimentazione di pratiche ed esperienze di pedagogia attiva, che fin dagli anni ‘60 si sono sviluppate nelle pieghe della città, occupandosi delle sue contraddizioni e conflitti e facendone elementi di autoformazione. Tanti i luoghi che hanno accolto indistintamente bambini, adolescenti, ragazzi lavoratori, disoccupati, emarginati, esclusi. Il contrasto alla povertà educativa era all’epoca non soltanto emergenza sociale, ma urgenza politica, animata da una visione di “risveglio” che ha lasciato un’importante eredità. Le storie di queste esperienze forse sono poco note ai non addetti ai lavori, ma a conoscerle da vicino fanno sperare in una fioritura futura.
Parliamo di esperienze come quella dell’ARN (Associazione per il Risveglio di Napoli), o della più suggestiva Mensa dei Bambini Proletari; quest’ultima un’esperienza unica nel suo genere, che ci ha colpito per la sua forza poetica e politica insieme e per la sua radicalità. Quella spinta all’autodeterminazione, alla formazione di una intera “comunità educante” è arrivata fino ai giorni nostri; ha lasciato in eredità uno spirito innovatore e una incredibile capacità immaginativa, che ancora anima le esperienze attuali di contrasto alla dispersione scolastica e alla povertà educativa; la riconosciamo nelle importanti organizzazioni che oggi “fanno scuola” come i Maestri di Strada, l’AQS – Associazione Quartieri Spagnoli, il Mammut, e tante tante altre esperienze disseminate in tutta la città. Realtà che agiscono con sensibilità predittiva, in maniera costante e presenziale, accompagnando i futuri cittadini in percorsi di cura dell’immaginario intessuti nella città.
Seguendo queste ed altre tracce stiamo esplorando Napoli come “Città Educante”, cercando quelle che sono le attuali “pedagogie attive”, non sempre ufficiali, a volte spontaneamente organizzate dagli abitanti di uno stesso quartiere. Pratiche condivise, basate sul mutuo soccorso, su una sapienza acquisita sul campo, che incrociano gli “addetti ai lavori”, interagendo con la scuola ufficiale o mediando con la parte più marginale della città. Abbiamo incontrato sulla nostra strada voci e testimonianze di ieri e di oggi; i cui racconti e pensieri crediamo di poter condensare in una domanda: “chi ha paura dei bambini?”. Da qui partiremo per attivare una riflessione condivisa, un esercizio collettivo di immaginazione, a partire dalla voce dei protagonisti della “resistenza educativa” di questa città.
La paura si prova di fronte ad un pericolo e spesso Napoli, che è da sempre associata ai suoi “scugnizzi”, è percepita come “città bambina e pericolosa”. A partire da questa e altre suggestioni, citazioni, narrazioni filmiche, ispirazioni di diversa natura, ci predisponiamo attorno ad un tavolo; un laboratorio di idee dove ognuno è portatore della sua porzione di città ideale: incrociando esperienze e visioni, difficoltà e possibilità, desideri e realtà, tenteremo di comporre insieme il racconto di una “Napoli, città educante”.

AvVento

è un progetto pluriennale concepito come “spazio ideale di fondazione”, che raccoglie diversi artisti intorno al comune compito di contribuire alla scrittura di un mito di fondazione postmoderno, dalla sua origine alla traccia, dalla sua visione al suo compimento.

 

 

 

 

 

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avVento

 

 

 

 

 

avVento (2011/2015) è un progetto pluriennale concepito come “spazio ideale di fondazione”, che raccoglie diversi artisti intorno al comune compito di contribuire alla scrittura di un mito di fondazione postmoderno, dalla sua origine alla traccia, dalla sua visione al suo compimento.
La scrittura di questo mito, non segue il filo di una storia, ma i sussulti di una riflessione corporea. Il progetto nasce dalla necessità di riconoscersi nell’urgenza di una prospettiva fondatrice per l’esistenza contemporanea, e quindi inaugurare uno spazio comune di interrogazione sulle mutazioni che sommuovono il nostro presente storico-sociale-geografi co-identitario, mettendo a fuoco una complessità che ci supera, ma che al contempo rappresenta il luogo che abitiamo.Intendiamo dunque la
fondazione come quell’azione inaugurale, istituente, che si sollevi da una signifi cazione privata e individualista per proiettarsi in una dimensione plurale.

Abbiamo voluto considerare la questione che ci si poneva non solo a livello del suo contenuto, bensì compiendo una ricerca sull’ethos, sulla forma della prassi artistica necessaria per affrontarla. Come l’atto “fondativo” oggetto della nostra rifl essione avrebbe dovuto iscriversi non in una dimensione individuale ma intersoggettiva, così ci è sembrato necessario che anche l’atto “creativo” venisse riconcepito, riconfi gurato, iscritto in una dimensione non più personale, ma
relazionale.
Abbiamo quindi inaugurato avVento, come cantiere itinerante di ricerca scenica, un dispositivo di creazione dialogica e multidisciplinare in cui la presenza di ciascun artista non assume valore di per sé, realizzando un’opera autonoma ed autosuffi ciente, ma agisce e si comprende come passaggio fondativo di una dimensione comunitaria, in cui diversi artisti si impegnano alla costruzione di uno spazio di confronto concependo le proprie opere come battute di dialogo.


Il progetto avVento non si traduce in un’unica opera scenica, ma innesca una scrittura collettiva multilingue, contemplando diversi piani espressivi, le cui tracce potranno leggersi nella loro interezza al termine del cammino (archivio web in costruzione che sarà reso pubblico nel 2015), ma che intanto affondano ognuna in una parte fondante del discorso, rendendosi autonome rispetto ad esso.
La struttura dell’intero progetto prende le mosse dalla scrittura dei “10 capitoli della fondazione” ad opera di Loretta Mesiti, (TeatrInGestAzione). Essi costituiscono l’ossatura tematica a cui rispondono di volta in volta (non in maniera consequenziale, ma rizomatica) i diversi dispositivi creativi che innescano la creazione delle parti del discorso.

Queste ultime si sviluppano attraverso differenti linguaggi espressivi e in dialogo con diversi artisti, a cui è stato chiesto di relazionarsi ai temi del progetto in maniera autonoma e tangente. Tali transiti restano nel percorso di creazione di avVento come traccia indelebile di ogni dialogo inaugurato, generando segni in cui tutti coloro che hanno accolto il nostro invito possono riconoscere il proprio passaggio, e che raccolti sotto un unico sguardo alla fine del percorso potranno rivelare il movimento di una intera comunità che avrà contribuito appunto alla rifl essione di un nuovo mito di fondazione.






 

 

 

Ad ora quest’opera sistemica e polisemica ha lasciato le seguenti
tracce:
#1.Absolute Beginners – opera scenica, di TeatrInGestAzione
#2.Bestiale Copernicana – opera scenica, di TeatrInGestAzione
Where we belong – opera fotografica, di Valentina Quintano
– Abbattere – serie pittorica, di Black Spring Graphics
– Corpus – catalogo fotografi co, di Angela Grimaldi
(con la supervisione del Professor Fabio Donato, Cattedra di
fotografi a, Accademia di Belle Arti di Napoli)
– #3. Geologhemi – opera letteraria, di Loretta Mesiti

Alto Fragile

Abbiamo immaginato un’opera, un’opera unica, che si dissemini nel tempo, lasciando intervalli in bianco. Intervalli nei quali proseguire l’azione e maturare la riflessione dentro e fuori la scena: Alto Fragile. Alto Fragile inaugura quindi una nuova pratica teatrale: una pratica teatrale che non ambisce alla realizzazione di uno spettacolo finito, ma si propone di condividere con il pubblico il tempo e lo spazio della ricerca.

 

 

 

 

 

 

Abbiamo immaginato un’opera, un’opera unica, che si dissemini nel tempo, lasciando intervalli in bianco. Intervalli nei quali proseguire l’azione e maturare la riflessione dentro e fuori la scena: Alto Fragile. Alto Fragile inaugura quindi una nuova pratica teatrale: una pratica teatrale che non ambisce alla realizzazione di uno spettacolo finito, ma si propone di condividere con il pubblico il tempo e lo spazio della ricerca.

ALTO FRAGILE è un dispositivo per artisti in residenza e spettatori attivi. Il progetto è l’ESPOSIZIONE PUBBLICA DELL’INGRANAGGIO CHE MUOVE UN CORPO IN STATO DI CREAZIONE, dell’opera che si fa corpo sotto lo sguardo del pubblico.


Esso si basa sulla condivisione tra artisti e spettatori del processo creativo e dello spazio che lo ospita, affinché si possa costruire una memoria comune intorno alla nascita di un’opera, al meccanismo umano che l’ha generata, che crei un’affezione e generi una nuova curiosità verso i linguaggi della scena contemporanea, affinché si possano superare le distinzioni di genere. Sentiamo il bisogno di ricostruire una lingua comune. Per questo abbiamo creato ALTO FRAGILE, affinché ogni spettatore potesse apprendere la grammatica della scena contemporanea, imparare una nuova lingua che è destinata sì a una continua mutazione, ma che nel suo incedere può divenire riconoscibile al passo.


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“DE RI VA_gruppo di studio a partire dalla Società dello spettacolo di Guy Debord” è un progetto a cura di TeatrInGestAzione in collaborazione con il DiARCH – Dipartimento di Architettura dell’Università Federico II di Napoli.

Un percorso che inauguriamo a febbraio 2016.

Un “gruppo di studio” che si riunisce periodicamente sotto la guida di TeatrInGestAzione.
L’indagine non vuole necessariamente preventivare un esito scenico, ma dare corpo ad una domanda, generando incontri e interventi di varia natura, con gli spettatori in spazi formali e non (performance, installazioni, letture, scritti, interventi singoli e collettivi in formati non precostituiti che il nostro incontrarsi genererà), e produrre una documentazione dettagliata del processo, che accompagnerà poi gli incontri pubblici.

“DE RI VA_gruppo di studio a partire dalla Società dello spettacolo di Guy Debord” è un progetto a cura di TeatrInGestAzione in collaborazione con il DiARCH – Dipartimento di Architettura dell’Università Federico II di Napoli.

Un percorso che inauguriamo a febbraio 2016.

Un “gruppo di studio” che si riunisce periodicamente sotto la guida di TeatrInGestAzione.
L’indagine non vuole necessariamente preventivare un esito scenico, ma dare corpo ad una domanda, generando incontri e interventi di varia natura, con gli spettatori in spazi formali e non (performance, installazioni, letture, scritti, interventi singoli e collettivi in formati non precostituiti che il nostro incontrarsi genererà), e produrre una documentazione dettagliata del processo, che accompagnerà poi gli incontri pubblici.

Semmai dovesse accadere, lo spettacolo sarà una celebrazione, da perpetrare.

Partiamo dalla condivisione di uno spazio neutrale, non teatrale, di un tempo fuori tempo, irregolare. Predisponiamo il luogo dell’osservazione del paesaggio in cui siamo immersi. Un presente fisico, spaziale, percepito, possibile. 
La ricerca di questa domanda che costituirà poi il nodo drammaturgico da cui scaturirà la forma come evento, che poi nella sua possibilità di ripetizione si farà atto celebrativo (peculiarità di un teatro che si rivolge all’origine delle cose), parte da alcune riflessioni sui linguaggi dell’arte che da troppo tempo sono parlati più che parlare.
Ci affidiamo, solo come spunto iniziale, all’analisi del filosofo francese Guy Debord e della sua “La Società dello Spettacolo”.
Come siamo soliti fare, apriamo il lavoro da subito a personalità complesse, che si occupano di teatro, ma che altresì fondano i propri studi e specializzazioni in altre discipline, con differenti competenze. Dunque per questo primo gruppo di lavoro abbiamo selezionato persone provenienti da diverse regioni italiane, che hanno competenze in architettura, filosofia, ingegneria, storia, lettere antiche, musica, danza. La cosa che li accomuna in ogni caso resta, soprattutto il teatro. Precisamente un certo modo di concepire il teatro. Linguaggio che si fa luogo, che accoglie e genera.

Il lavoro si apre anche alla partecipazione degli studenti del DiARCH (Dipartimento di Architettura dell’Università di Napoli Federico II) invitandoli a dare corpo ad una domanda sullo spazio teatrale contemporaneo. Ciascuno secondo le proprie competenze e specificità e interessi.

Dare vita ad un dialogo quotidiano interdisciplinare, e ristabilire la complessità necessaria per abitare il presente nel suo divenire costante, per questo inviteremo gli studenti ad abitare il processo creativo che metteremo in atto e a frequentare la nostra prassi teatrale, nel luogo della produzione del pensiero per eccellenza che crediamo ancora debba essere l’università
, dove si svolgeranno le prime fasi del progetto. E dunque ci sembra necessario innanzitutto sostare/osservare per fertilizzare la visione di coloro che forse saranno i costruttori degli spazi teatrali a venire. Per poter immaginare di nuovo uno spazio del teatro (visione) e non più dello spettacolo (consumo).

Si tratterà di “disfare lo spazio, non meno che la storia, l’intreccio, l’azione”
                                                                                                                              G. Deleuze

Con gli studenti approfondiremo una riflessione sullo spazio teatrale, che parte da uno dei maggiori architetti contemporanei:

“Bisogna creare visioni per sopravvivere”
D. Libeskind

In un’intervista dal titolo “La fine dello spazio” l’Architetto Daniel Libeskind, rispondendo alla domanda del suo intervistatore che gli chiedeva quale fosse la sua idea sulla posizione del teatro contemporaneo rispetto all’architettura, risponde così:

“E’ un argomento ampio e complesso, perché la sua domanda riguarda il concetto di spazio del teatro. Ritengo che molte persone che lavorano in teatro sia come attori che come registi si siano messi alla ricerca di uno spazio da trovare, non uno spazio teatrale, ma uno spazio da trovare […] credo che il teatro come ogni altra cosa, abbia perso l’illusione di quel “l’unico” spazio, “lo” spazio, lo spazio della lingua bella, lo spazio della memoria. Questo ha a che fare con una relazione totalmente nuova con il concetto di pluralità, e quindi certamente con quel fantasma dello spazio che aleggia sempre sul teatro, come la gravità sull’architettura. […] Come può esistere un’architettura del teatro? La nozione di scena intesa in maniera classica non è certamente calzante rispetto alla realtà contemporanea che viene ingoiata dallo spazio. […] È ciò che a lungo termine potrebbe rivelarsi una salvezza. Quando teatro ed architettura non sono dove ci si aspetta di trovarli. Quando all’improvviso si dislocano; quando sono in grado di spiazzare e ricollocare le istituzioni. Non è una trasformazione storica, è uno slittamento improvviso ed imprevedibile nel comportamento; uno slittamento nel modo di comprendere e di auto comprendersi, e al contempo un’improvvisa perdita di ciò che riteniamo di sapere, di aver compreso attraverso i concetti: una rimozione improvvisa di tutto ciò. Sono interessato allo spazio silenzioso che non esiste più in teatro.”

Questo spazio silenzioso per noi è il corpo dell’attore, un’architettura in movimento. Da questo corpo, crediamo si possa partire per pensare al futuro dello spazio teatrale. Tra il teatro e l’architettura c’è da sempre una reciprocità. In nome della forma come evento, accadimento sociale. Il teatro è prima di tutto lo spazio deputato all’incontro tra attore e spettatore convenuti alla meraviglia.


Ancora sul rapporto tra architettura e teatro, lo storico e critico del teatro Fabrizio Cruciani, in un intervento dal titolo “Il teatro che abbiamo in mente” scrive:

“… Oggi il teatro dell’immanenza possibile si fonda sulle esperienze forti del Novecento, il secolo ormai passato: produttivamente è il luogo in cui si realizza il lavoro degli attori, un lavoro che non è più la breve durata dello spettacolo e delle prove ma la lunga durata dell’esperienza, luogo che ha quindi una dimensione del quotidiano e la sua sacralità; culturalmente è il luogo in cui si realizzano le relazioni e le visioni di uomini concreti. Come insegna la ripetuta fuga dei teatri dal teatro e il rifugiarsi nei luoghi del vissuto, la diversità di cui consiste il teatro ha bisogno di uno spazio che esibisca la sua normalità non rispetto all’idea di teatro ma rispetto al sociale quotidiano. […] Ma ogni progetto di teatro resterà solo “monumento” o diventerà come quelle case disabitate di cui resta solo la facciata se non lo si darà come abitazione agli uomini di teatro.

Quindi il nostro è un invito alla produzione di un nuovo pensiero nel rispetto della maturazione organica dell’opera, partendo dall’innesto della prassi teatrale nelle stanze dell’università, luogo simbolo della conoscenza che appartiene alla città.

Il gruppo, dopo una prima fase pluri-residenziale e periodica, a Napoli, aprirà la propria indagine ad altre persone attraverso dei laboratori intensivi e itineranti, che saranno fonte di confronto e approfondimento.

In questa prima fase ci preme cercare di riconoscere la capacità di stare più che di fare. E’ questo infatti il principio alla base della nostra prassi creativa, tesa a difendere e promuovere e sostenere autonomia di pensiero e di azione, lontano dalla dinamica produttiva richiesta dal mercato.
TeatrInGestAzione è un organismo indipendente ed autofinanziato, che genera un discorso artistico svincolato dai tempi della produzione ufficiale, sempre troppo prematuri rispetto alla maturità piena dell’opera. Per questo immaginiamo forme alternative di sostegno, per non cedere il bene più prezioso che abbiamo: il tempo della gestazione. Dalla nostra prassi nasce dunque la convinzione che i processi di creazione debbano avvenire in luoghi non teatrali, dove si parla un linguaggio altro, dove tutto intorno è paesaggio da esplorare, lingue nuove da apprendere, umanità da accogliere.

 

 

Radio Leib

adio Leib Radio Leib è “corpo vivo” in movimento. Uno spazio sconfinato che accoglie proposte di radiofonia sperimentale e di comunità. Il nome “Leib” si riferisce ad un corpo vivo a contatto col mondo; il Leib come stare al mondo (Lebenswelt). Un progetto di Teatringestazione Direzione Gesualdi/Trono

Altofest

Ciò che facciamo con Altofest è creare un luogo di promiscuità in cui ognuno accoglie il rischio di esporsi all’altro. Il privato non è più proprio, ma intimità condivisa. L’espropriazione, il dislocamento che spesso sono vissuti come traumi, nel caso di Altofest sono come il temporale che blocca sconosciuti inaspettatamente sotto la stessa tettoia o nello stesso androne a cercar riparo.

 

 


DARE LUOGO ad una rigenerazione Umana / Urbana

Altofest si configura come luogo d’inizio, fatto di passi incerti e attese sugli usci delle case. A Napoli, perché ogni istante vissuto in questa città è come la prima volta, il primo suono, la prima luce. Ci interessa l’innamoramento, e non il rinnovamento. Qui è possibile perché nulla è come sembra, qui non si conosce “sembra”. Qui si accade.

Qui capita di camminare per strada e vedere le donne che fuori dal proprio “basso” troneggiano in vestaglia, conquistando un fazzoletto di suolo pubblico, manifestando la propria identità, che si diluisce in quella del dirimpettaio, definendo un luogo che rende i due abitanti contemporaneamente a casa e fuori casa. In questo modo Napoli sposta il confine tra pubblico e privato non più avanti o più dietro, ma nell’atto di abitare, esso non è confine fisico bensì confine abitativo.
Ciò che facciamo con Altofest è creare un luogo di promiscuità in cui ognuno accoglie il rischio di esporsi all’altro. Il privato non è più proprio, ma intimità condivisa. L’espropriazione, il dislocamento che spesso sono vissuti come traumi, nel caso di Altofest sono come il temporale che blocca sconosciuti inaspettatamente sotto la stessa tettoia o nello stesso androne a cercar riparo.

Amiamo dire che il festival è una trappola nella quale si sceglie di capitare, essa lo è per l’artista che sceglie di portare i propri materiali fuori dallo spazio formale e lo è per il donatore che decide di lasciare che un’opera abiti il suo spazio intimo, lo è per il pubblico che riconosce il luogo privato come un luogo altro, uno spazio di scrittura. La casa del donatore diventa foglio bianco nel momento stesso in cui l’artista varca la soglia. Totalmente e reciprocamente esposti, abitanti dello stesso luogo, artisti e cittadini non hanno più scuse per mancare l’incontro.

Altofest innesca dispositivi generativi di relazione, pensiero e conoscenza, miscela la dimensione intima e quella pubblica, predispone uno spazio di promiscuità tra artisti e cittadini, tendendo al superamento dei ruoli, a favore di una partecipazione corale, di un’esperienza totale che genera “relazioni inedite”.

Altofest tende quindi ad emanciparsi progressivamente dalla funzione di mera “produzione” e/o “programmazione” di spettacoli ed opere artistiche, abitualmente attribuita ai festival, per prefigurarsi come uno spazio di socialità sperimentale. La città diventa in questo modo dimora per pratiche d’arte innovative e condivise, per artisti vivi e cittadini audaci.

Il festival nasce a Napoli nel 2011, ideato e diretto da TeatrInGestAzione (teatringestazione.com).

TEATRINGESTAZIONE da diversi anni si occupano di creare pratiche artistiche innovative che coinvolgono il territorio e gli artisti internazionali, puntando sulla partecipazione diretta dei cittadini ai processi culturali, innestando l’azione artistica nell’architettura socio-urbana ed umana in cui agisce. Promuovono prassi creative che producono un pensiero nuovo, che favoriscono la crescita della collettività attraverso la valorizzazione della differenza, e non si abbandonano al facile consenso.

ALTOFEST nasce dunque con l’intento di DARE LUOGO ad una comunità generatrice di un pensiero critico, che tenga alta l’allerta su ogni tentativo di massificazione della proposta culturale imposta dall’alto, capace di riconoscere la cultura come bene primario, sentirne il bisogno quotidiano. Tentiamo di innestare un processo trasversale, che richiami al dialogo tutte le componenti sociali del tessuto urbano, il cui connettore è la visione estranea, straniera, espressa attraverso la pluralità dei linguaggi delle arti dal vivo ospitati nel festival, che donano a questa comunità l’occasione per parlarsi in una lingua neutra, incontrarsi in uno spazio di rischio condiviso.

DRAMMATURGIA DI UN FEST

Un progetto internazionale, orizzontale e generativo, che si innesta nel tessuto socio-urbano che lo ospita per “dare luogo” ad una riqualificazione umana ed urbana.
Sia in qualità di artisti che di cittadini, siamo partiti da queste domande:

Cosa ci rende estranei l’uno all’altro? Dove si genera la distanza? Perché la cultura è assente nella scala dei valori e delle urgenze quotidiane?

Quindi abbiamo individuato nella “prossimità” e nel “dono” le chiavi per concepire la struttura di ALTOFEST, ponendo la presenza dell’artista in relazione non più al suo spettatore, ma alla comunità di cui questo fa parte.

In queste passate edizioni Altofest ha creato il luogo della prossimità. Gli artisti entrano nelle case dei cittadini e questi accolgono le loro opere nel proprio quotidiano, nello spazio più intimo, permettendo agli uni di riscrivere la presenza e la necessità degli altri, dando luogo a relazioni autentiche, che moltiplicate nello spazio cittadino fondano una nuova possibile comunità, uno spazio di pluralità di azione e di pensiero.

Fin dalla sua prima edizione DARE LUOGO è il principio che accompagna Altofest. Dare luogo evoca il principio del dono, sul quale il festival si regge, ma anche l’iniziativa consapevole, la scelta, presupposta a questo dono.
Dare luogo indica inoltre la direzione estetica delle opere e degli interventi che Altofest genera e accoglie: interventi nati da un dialogo singolare con gli spazi che li ospitano, destinati a far emergere il luogo altro, il luogo possibile dentro, attraverso le pieghe di spazi già abitati, risignificando forme, oggetti, usi, già praticati, già disposti alle relazioni e alle azioni che accolgono quotidianamente.

Altofest s’interroga in maniera radicale sulla necessità di generare nuovi valori, ridisegnare la relazione con i luoghi, di sovvertire l’uso di spazi e l’attribuzione fissa di ruoli, di osare sconfinamenti (di genere, di disciplina, di competenza, d’azione) mai tentati.

Altofest è concepito da TeatrInGestAzione come un’opera dal vivo, estesa e condivisa.
I suoi ideatori ne curano la realizzazione secondo i dettami della propria poetica e metodologia creativa, muovendo dall’esigenza di svincolare l’atto performativo dal contesto spettacolare, disegnando spazi di condivisione in cui altri artisti e autori di diverse discipline possano entrare in dialogo e mettere in discussione, in maniera pubblica e collettiva, le proprie pratiche.

COME FUNZIONA

Altofest – International Contemporary Live Arts Festival – dal 2011 riunisce a Napoli una comunità crescente di artisti internazionali, cittadini di Napoli e produttori di pensiero. Ad essi, a partire dalla quinta edizione, si aggiungono operatori internazionali (curatori, programmatori), accolti quest’anno grazie al sostegno dell’Aeroporto Internazionale di Napoli e al dialogo con Creactivitas.

Il Festival è costruito assieme ai cittadini di Napoli, che nelle loro case e/o spazi privati di altra natura (appartamenti, terrazzi, sotterranei, cortili, interi condomini, laboratori artigianali…) ospitano opere di artisti internazionali.

Un processo svolto attraverso la sperimentazione di poetiche innovative, che ambiscono a coinvolgere, assieme ai luoghi, il sistema di relazioni che questi luoghi ospitano.

Il programma del festival accoglie tutte le espressioni dell’arte contemporanea dal vivo, ospitando progettualità interdisciplinari, prodotte dal dialogo tra autori che sperimentano sinergie inedite, prassi ibride, la cui presenza oggi rende ALTOFEST crocevia di linguaggi diversificati e di estetiche sperimentali.

Gli interventi in programma sono sottoposti allo sguardo e all’analisi di un Osservatorio Critico, uno spazio permanente di riflessione e ricerca interdisciplinare, organicamente legato ad Alto Fest, in cui viene riunita una compagine di ricercatori ed artisti, personalità portatrici di saperi, pratiche e competenze fortemente eterogenee, chiamati ad esercitare uno sguardo collegiale e poliprospettico sul festival stesso.
L’Osservatorio è presieduto da Silvia Mei ( http://bit.ly/silviamei ) in dialogo con TeatrInGestAzione. I nomi dei membri che comporranno l’Osservatorio 2016 saranno pubblicati sul sito di Altofest.

ALTOFEST si costituisce dunque come Osservatorio Permanente sull’esperienza estetica, invitando le presenze in programma a riflettere, riferendosi al proprio progetto, sul principio primo che lo ha generato: Dare Luogo.

Gli artisti sono incoraggiati ad assistere a tutte opere in programma, a partecipare a tutte le attività condivise con i cittadini, predisposte dal festival, a rendersi disponibili al dialogo con l’Osservatorio Critico, a partecipare ai momenti di confronto con gli Operatori Culturali Internazionali, a lasciare una traccia scritta della propria presenza/esperienza.